Gia' gli Antichi hanno definito indifferentemente
miti una gran quantita' di di idee e di narrazioni che apparivano loro
importanti e che pero' contraddicevano, quanto alla loro forma, la verita'
naturale.Vennero chiamati miti non soltanto le antichissime sentenze
concernenti gli dei ed il loro essere ed agire simile all' uomo, ma
anche le favole di Esopo, che avevano lo scopo di ammaestrare gli uomini
ricorrendo ad animali parlanti, e via dicendo. Miti erano anche le storie
fantastiche destinate a spiegare usanze antiche, istituzioni e modelli
che percio' vengono definiti eziologici.Il Socrate platonico racconta
miti divenuti famosissimi per offrire un' immagine di cio' che oltrepassa
ogni esperienza umana, ma osserva altresi' esplicitamente che sarebbe
insensato ritenere veri quei racconti ( Fedone, 114 d ).
Platone sostiene che tutti i miti, anche i piu' antichi, quelli che
si ritrovano in Omero ed Esiodo, sono stati composti dai poeti.
E Socrate indica come compito dei poeti proprio quello di creare miti.
Possiamo anche essere d' accordo. Quando ad esempio Mörike inizia
una sua poesia con le parole:
^cima^
Quieta scese la notte sulla terra,
Sospesa, in sogno, al muro dei monti...
ecco che ascoltiamo il poeta che crea un
mito.
Anche nel caso in cui le narrazioni mitiche si presentano all' apparenza
autonome, come ad esempio nei canti popolari, dobbiamo pur sempre ritenere
che un tempo esse abbiano ricevuto forma di parola da qualcuno che chiamiamo
poeta o cantore.
Quando tuttavia applichiamo queste regole ai miti grandiosi e antichi
che ci provengono dai millenni della preistoria - e va subito chiarito
che persino la divinita' vi rientra, come forma -, diviene visibile
una differenza essenziale. I cantori e gli ascoltatori non credevano
che questi miti fossero le immagini di verita' nascoste, ma la verita'
in quanto tale.
E' quanto contiene gia' la denominazione greca, ancor oggi comune presso
le lingue europee; mütos, ed il suo contrario, logos, significano
entrambi la parola. Ma logos e' la parola in quanto pensata, sensata,
persuasiva. E' per questo che il termine ebbe in sorte un cammino grandioso
nella storia del pensiero greco, e che ancor oggi e' indispensabile
nell' intero ambito "logico". Mito significa invece fin dall'
inizio, nel linguaggio piu' antico, in modo assoluto, la parola di cio'
che e' accaduto o che deve accadere, la parola che da' notizia di fatti
ovvero che deve diventare un fatto con il suo esser pronunciata, la
parola normativa. Il logos pote' quindi acquisire dignita' sempre maggiore,
mentre il mito, che narrava delle storie che nel corso del tempo sembrano
essere non degne di fede, fu retrocesso a designare le invenzioni e
le fantasticherie. Il significato del termine si era cosi' rovesciato
gradualmente nel suo opposto. Era proprio esso infatti, inizialmente,
a designare la parola vera, che non consente dubbi o inosservanze, la
parola del testimone cui ci si appella o del signore che ordina, mentre
logos stava ad indicare la parola ben meditata, e proprio percio' non
semplicemente ammaestrante, ma anche convincente.
I miti antichi vogliono dunque essere compresi come verita' piene, e
questo a differenza di ogni altra cosa che possa essere considerata
vera o esatta, sensata o utile, senza potere pero' esigere quel carattere
esclusivo di dignita'.
Proprio in questo senso i cosiddetti primitivi distinguono i loro miti,
come verita' sacre ed intangibili, da tutte le loro narrazioni piene
di ammaestramenti e ingegnosita', che pure noi definiamo mitiche in
quanto non possono essere vere nel senso letterale del termine. La loro
pubblica declamazione dev' essere separata, nel tempo e nello spazio,
da quella dei veri miti.E se, per parte nostra non ci avvaliamo piu'
di una differenza che si riporta alla dignita' di fede, distinguiamo
pur sempre tra miti primari e secondari.E' ifatti indubitabile che i
racconti considerati di minor valore abbiano ricevuto il loro carattere
sovrannaturale da miti sacri piu' antichi, benche' non possano piu'
pretendere per se' quell' indiscutibilita' di fede che questi ultimi
possedevano.
Questi miti antichi, con le loro verita', contraddicono a tal punto
il pensiero e la scienza razionali, che gia' alcuni filosofi greci,
ad esempio Senofane e Platone, li esposero al ludibrio, come invenzioni
folli o persino dannose.
Come va interpretato questo?
La strada piu' semplice, ed in effetti percorsa sempre continuamente
dagli interpreti, consiste nel ritenere che quei miti fossero il prodotto
di una mentalita' primitiva, inevitabilmente soggetta ad essere superata
da un pensiero piu' maturo e piu' adeguato alle cose. Questa interpretazione
cozza pero' nel modo piu' deciso, come abbiamo visto, con la determinazione
essenzialmente originaria del mito, che lo differenzia nettamente, in
quanto esperienza e rivelazione immediata e incontrovertibile, da mentalita'
di qualsiasi natura. Ed anche se volessimo ritenerla una mentalita',
e' proprio vero che sia stata superata?
Tralasciamo per ora le cosiddette superstizioni. La poesia si esprime
ancor oggi miticamente, e continuera' a farlo finche' avra' vita. Essa
si rifa' persino a quelle figure che il mito ha tramandato. Qualsiasi
cosa ne pensiamo, esse sono importanti per il poeta ben piu' di qualsiasi
fantasia, perche' sono in grado di rivelarsi vere, autonomamente, quanto
alla loro forza avvincente. Si presentano al poeta non soltanto occasionalmente,
ma possiedono forza a sufficienza per dar vita, dopo millenni, a crezioni
poeticamente significative. E cio' sarebbe incomprensibile se veramente
non fossero altro che il frutto di una mentalita' primitiva e superata,
e non piuttosto, come e' il loro caso, come una verita' rivelata e incontrovertibile.
Goethe, nella sua disputa con Jacobi, non ha forse solennemente dichiarato
di essere, "come poeta ed artista, un politeista", di essere
cioe' a conoscenza di una molteplicita' di dei, rifiutandosi decisamente
a che tale conoscenza, a confronto con quella scientifica, venisse considerata
frutto della fantasia?
Veniamo cosi' continuamente ricondotti alla verita' del mito. Ma come
intenderla?
Per venire in chiaro dobbiamo aver presente, dei miti, non la loro molteplicita'
ma quel carattere di fondo che li accomuna tutti.
Diciamolo tranquillamente: questo carattere di fondo e' l' impossibile
per l' intelletto. Tutti i miti ruotano attirno ad un nucleo di impossibilita'.
Ma questo impossibile, che ne costitituisce il perno, e' il dio! Il
mondo dei miti e' il suo mondo. E qui che parlare di una mentalita'
perde di significato, perche' non vi e' nulla di comparabile. Il dio
puo' soltanto manifestarsi, essere esperito, oppure no. E' dalla sua
unicita' che tutto quel che di mitico lo circonda riceve la propria
unicita' ( o impossibilita'), non da un pensiero che pensi in termini
inattendibili o indimostrabili. Dato che la sua figura costituisce il
punto centrale di ogni mito - di quelli genuini, non di quelli che semplicemente
imitano o giocano con il mito -, tutto il loro modo deve essere del
pari meraviglioso. La figura del dio e' dunque quel mito originario
che non dobbiamo lasciarci sfuggire dallo sguardo.
A questo proposito incontriamo pero' la
critica del mito dal punto di vista della serieta' della religione,
dato che la divinita' stessa e' in gioco. Si sostiene che il mito possa
soltanto ingannare la coscienza del divino, poiche' quest' ultima e'
tanto piu' pura e santa quanto piu' si mantiene da nomi e forme, dunque
da tutto cio' che vi e' di mitico. Il mito viene dunque condannato perche'
esso minaccerebbe di trasformare la vera fede in superstizione. Goethe,
riferendosi a questo spregio del mito, fa pronunciare a Faust le famose
parole:
Tutto e' sentimento;
Nebbia e' il nome,
Che avvolge la celesta fiamma.
E Margherita risponde:
All' incirca cosi' parla anche il parroco,
Solo, con parole un po' diverse.
Ma come si esprime differentemente Hölderlin!
Nel suo Inno alla Germania il messaggero celeste cosi' si rivolge alla
vergine:
Pronuncia infine, o figlia della sacra
terra!
Il nome della madre. Mugghiano le acque alle rupi
E nel bosco le tempeste, e nel loro nome
Risuona da tempi antichi il divino passato.
^cima^
Il divino risuona nel nome! La circostanza
meravigliosa per cui l' essere si manifesta in forma sonora, e' qualcosa
su cui torneremo anche in seguito. Il nome, che risuona, e' il primo
rivelarsi del divino, e, come ogni rivelazione dell' essere, accade
nella forma. La forma non traduce in immagini, non simboleggia: e' l'
essere stesso del divino, la sua manifestazione immediata, quale si
mostra agli uomini, la lingua in cui parla loro. Il nome e' dunque il
primo mito. E poiche' la forma, che esso rivela, e' una forma vivente,
deve dar vita ad una cerchia di forme vitali, che sono entita' ed eventi
mitici.
Tutte le religioni sono percio' inizialmente mitiche. Cio' non significa
che esse sarebbero ancora offuscate da idee insensate, come si e' soliti
pensare con grossolana superficialita', ma che sono ancora le piu' vicine
all' originarieta' della rivelazione della forma.
E' notorio che le religioni stesse riconducono la loro devozione a rivelazione
della divinita' in una forma. Soltanto l' incredulita', che ha profanato
il mondo e tutto quello che e' visibile, non puo' piu' sopportare il
mito e deve rifugiarsi nella tranquillita' del sentimento o nel mistero
dell' anima. Ma nessuno verrebbe catturato dal " sentimento",
che Faust dice essere "tutto", se la divinita' non si fosse
rivelata neppure come forma e non fosse stata " nominata ",
e se la sua forma non risvegliasse continuamente nuova vita. Senza questo
mito nessun mistico la troverebbe nelle profondita' dell' anima, e neppure
lo sciamano potrebbe inviare la propria anima in cielo, per osservare
con gli occhi dello spirito, se un mito non glielo avesse insegnato.
I miti sono di diverso rango. La loro dignita' dipende esclusivamente
dalla loro vicinanza al mito mito originario della forma del dio, vale
a dire, dalla misura della loro partecipazione alla sua sacerta'.
Il mito originario da' prova di se' poiche'
e' una potenza che afferra la vita, dovendo manifestarsi nelle azioni
e nei comportamenti degli uomini. Questa necessita', che fa parte della
sua essenza, lo differenzia da tutto cio' che gli e' piu' o meno affine,
o simile.
Ne abbiamo avuto un esempio importante
soltanto di recente, in ambito di culture primitive: si tratta di una
ricerca di scienza delle religioni condotta sull' isola di Ceram, nelle
Molucche. Vi possiamo riscontrare la presenza, in ogni aspetto dell'
esistenza, del grandioso mito della morte di un' entita' sovrumana,
grazie alla quale soltanto hanno fatto il loro ingresso nel mondo la
procreazione, la fertilita' e la morte.
E' in sostanza lo stesso mito che con altri nomi e forme ritroviamo
anche in alcuni popoli civilizzati. Presso i primitivi esso determina
ogni attivita' della vita pubblica e privata. Quel che finora si credette
fosse prodotto da una logica particolare, a causa della sua singolarita',
acquista invece, alla luce del mito, un senso ben preciso, valido ovunque.
L' evento miticodelle origini e' di tal natura, da richiedere di essere
imitato, o, piu' esattamente, nuovamente compiuto, con stringente necessita',
in ogni azione umana importante. La forma originaria della realta' del
mondo, rivelatasi nel mito, deve farsi presente nelle azioni e nelle
istituzioni della vita dell' uomo.
La stessa cosa potremmo apprenderla anche dalla preistoria dei popoli
civilizzati, divenuta determinante per il loro successivo sviluppo.
Quanto piu' pero' la razionalita' respinge il mito, ed il mondo viene
profanato, tanto piu' la sapienza originaria del divino deve ritrarsi
nel sentimento, nella sensibilita' del cuore. Il profano compare accanto
al religioso ed occupa ben presto lo spazio maggiore.
Mentre una volta, come nel caso delle culture primitive, tutte le azioni
e le istituzioni importanti avevano un carattere cultuale, adesso la
cultualita' si limita sempre di piu' a momenti ed atti singoli, scelti
dalla vita profana.
La questione del reciproco rapporto di mito e culto ha ottenuto risposte
diverse nel corso del tempo. Il positivismo del secolo passato ha ritenuto
piu' antico il culto, individuandone l' origine nella magia, ed ha cercato
di farvi derivare il mito, come un prodotto secondario. Ma e' stato
osservato che non v' e' assolutamente, e non v' e' mai stato, un culto
senza mito. E non e' che una mezza verita'. Occorre aggiungere: il mito
richiede il culto. Essi sono sostanzialmenteuna cosa sola. E' un aspetto
del mito genuino che esso debba manifestarsi o prender corpo nella forma
di azioni cultuali o di annunci. Il divino esige l' incarnazione.
Questo avviene in tre modi, o in tre livelli, che non vanno pero' interpretati
come cronologicamente susseguentesi.
^cima^
Il mito si rivela:
1) Nel portamento delcorpo umano.
2) Nelle azioni.
3) Nella parola.
Tutto cio' indica una rivelazione originaria
che si manifesta nel comportamento mitico, nell' azione mitica e nella
parola mitica. Queste forme mitiche non sono pero' affatto semplici
rappresentazioni, o parabole: sono il mito originario stesso manifestantesi
in una forma. Da quanto detto risulta che sarebbe sbagliato ritenere
il mito come parola piu' originario e genuino dei comportamenti e delle
azioni sacre.
Sul primo punto: gia' il portamento eretto
dell' uomo e' originariamente un divenir forma di questo tipo. Non v'e'
altra creatura che, eccezion fatta per pochi istanti, abbia un portamento
simile. Tutti gli animali, anche quando, come gli uccelli, si innalzano
in cielo, hanno sempre lo sguardo rivolto verso il basso, a terra. Il
portamento umano e' il primo testimone del mito del cielo, del sole
e delle stelle, compare qui non nella parola, ma nell' erigersi proprio
del corpo. Il significato religioso di altri comportamenti, in uso da
tempo immemorabile, ci e' ben noto.
E' ad esempio il caso dello stare in raccoglimento, del sollevare le
braccia e le mani o, all' opposto, del piegarsi fino ad inginocchiarsio
gettarsi a terra, del congiungere le mani e di tanti altri, che non
occorre menzionare.Questi comportamenti non dipendono, nella loro natura
originaria, da un sapere o da una fede ricompresi in parole, ne' sono
l' espressione di una indicibile commozione: sono il mito rivelato,
sono il mito stesso.
Sul secondo punto: il mito si rivela come
forma nel movimento e nell' azione dell' uomo. Qui si palesa qualcosa
di affine alla configurazione del mito nella parola, che verra' affrontata
successivamente.
L' incedere solenne, la sublimita' dei gesti, il ritmo e l' armonia
delle danze sono tutte autodimostrazioni di una verita' mitica che vuole
manifestarsi: E' il mito che si rivela.
Lo stesso vale per le opere della mano dell' uomo. Una pietra viene
deposta, una colonna eretta, un tempio costruito, un'immagine creata.
Lasciamo all' intelletto grossolano il definire "feticismo"
la loro portata sacra. Ne' si tratta di monumenti per qualcosa su cui
riflettere, o da ricordare. Sono il mito stesso, vale a dire la manifestazione
sensibile del vero, che vuole dimorare in una forma del mondo visibile,
con la sua divinita'.
Le azioni cultuali, infine, in cui si fa presente un accadimento mitico,
sono piu' facili da comprendere, perche' ancor oggi ve ne sono alcune.
Le nostre festivita' religiose, e le celebrazioni sacre, che alludono
ad una storia sacra, sono ben piu' che solennita' commemorative. Non
significano soltanto quel che un tempo e' accaduto ma sono quell' evento
stesso nel suo ritornare regolarmente. Lo stesso vale per le azioni
cultuali antiche ed antichissime, oggi divenuteci estranee. Anche se
in questi casi il mito ci rimane oscuro, perche' la sua forma si e'
perduta nella parola, pure, esse sono manifestazioni immediate di un
evento mitico che si deve rivelare nella forma di azioni umane. Niente
ha maggiormente sviato la ricerca scientifica, del pregiudizio moderno
secondo cui tali azioni sarebbero state prodotte da una vera o presunta
utilita'. E' chiaro che da esse ci si attende un effetto, una salvezza.
Ma possono prometterla perche' sono vere, e non viceversa.
Sul terzo punto: il mito nella parola.
Il mito sembra esserci comprensibile soprettutto nella sua forma linguistica.
Il discorso poetico, in effetti, ci e' familiare, e non puo' negarsi
che esso sia quanto meno affine a quello mitico. E' vero che la maggior
parte dei miti antichi si e' fatta enigmatica per noi, e che molti di
essi hanno un effetto estraniante, persino repellente, mentre le figure
mitiche dei poeti ci parlano con una carica vitale e convincente. Ma
possiamo pur sempre pensare che nella preistoria, allorche' l' uomo
viveva ancora a tu per tu con la natura elementare, l' essere delle
cose gli si sia rivolto diversamente, e che questo linguaggio dovette
suonare sempre piu' estraneo man mano che l' esistenza si ingentiliva,
si razionalizzava, o, persino, come oggi, diveniva meccanica: cosi'
che l' uomo animato dalla volonta' si sostitui' a quello patico e contemplativo.
Anche l' elemento mitico della poesia, per quanto possiamo sentirne
l' intima verita', non avrebbe dunque piu' il potere del mito antico,
genuino, di immettersi nella vita umana, con le sue forme e con necessita'
cogente.
E tuttavia la poesia puo' esserci d' insegnamento in ogni tempo, il
che vuol dire che il mito dovette prendere corpo, oltre che come comportamento
ed azione, anche come linguaggio e suono.
Quando il poeta parla, si tratta certo della lingua che si e' formata
nel corso dei millenni, ma essa e' pur sempre ringiovanita e fresca
come se risuonasse per la prima volta. Per quanto le sue forme possano
essere antiche, sbocciano con la meravigliosa novita' del loro primo
nascere. E' soltanto qui che possiamo rinvenire testimonianze del linguaggio
originario, non nelle chiacchiere ordinarie o nel balbettio dei bambini
che non fanno che imitare gli adulti. Il poeta non vuole comunicare
nulla, anche se spesso puo' invece sembrare cosi'. Parla perche' deve
parlare, perche' l' essere delle cose vuole rivelarsi e la sua rivelazione
e' la forma sonora della parola. Anche il parlare non puo' dunque essere
in alcun modo spiegato con la necessita' di comunicare. Dev' essere
stata una necessita' completamente diversa a produrlo. L' uomo primitivo,
la cui immagine, inventata, ha dato origine ai tentativi di spiegare
come le primigenie necessita' di osservazione e di comunicazione poterono
sorgere, possedeva in verita' un piu' che sufficiente numero di versi
e di gesti per esprimere le proprie osservazioni ed i propri desideri
vitali, quegli stessi versi e gesti con cui comunicano a merviglia gli
animali e, ancor oggi, i sempliciotti.
Si prendano le proposizioni che i teoretici del linguaggio utilizzano
come esempi della lingua piu' antica e si giudichi se esse, per lo stadio
di quel presunto primitivo, non sono completamente superflue. Come spesso
avviene, anche in questo caso gli interpreti girano in tondo, presupponendo
gia' inavvertitamente, cio' di cui in realta' devono chiarire l' origine.
Le proposizioni apparentemente cosi' semplici e corrispondenti alle
condizioni piu' naturali, non avrebbero mai potuto essere pronunciate
se il linguaggio stesso non fosse gia' stato disponibile. Il linguaggio
resta cosi' un miracolo, come la stessa comprensione dell' essere e'
un miracolo. L' uomo non parla perche' pensa, ma pensa parlando.
Poiche' la comprensione dell' essere e' sostanzialmente mitica, in quanto
l' essere si rivela nelle forme, il linguaggio possiede un carattere
assolutamente mitico, cosa che esso dimostra ad ogni istante nelle sue
creazioni. Cio' differenzia il linguaggio naturale da quelli artificiali,
che hanno esclusivamente una funzione di scambio. Sono questi ultimi
ad essere cio' che erroneamente si crede sia stato il linguaggio sin
dall' inizio: un mezzo di comprensione.
Renderemo dunque il miglior servizio all' ermeneutica del linguaggio
interrogando il mito, e precisamente il mito nella parola.
Il mito genuino non chiede aiuto al linguaggio per esprimere piu' o
meno chiaramente un' esperienza, una sensazione, un pensiero. Nella
parola esso stesso e' presente. La parola e' il mito rivelato. Allo
stesso modo in cui i comportamenti e le azioni sacre sono il mito stesso,
del pari lo e' la parola sacra.
Le preghiere sono autorivelazioni della
verita' mitica. Esse rivelano dapprima la presenza di dio, e poi divengono
preghiere per il suo avvicinarsi, o infine per qualche favore. La forma
prima, e piu' semplice, e' il nome del dio, di cui abbiamo gia' discusso
il significato come forma divina rivelatasi. Nelle narrazioni mitiche,
che inizialmente sono una forma di di evocazione innica, la manifestazione
della forma del dio prosegue facendo scomparire nella parola l ' evento
divino che ne consegue, che e' il punto centrale. Che l' essere delle
cose voglia rivelarsi nella parola con la sua divinita', questo e' il
supremo evento del mito.
Sappiamo che originariamente linguaggio e musica erano una cosa sola,
e che la musica vera e propria si e' separata dalla parola soltanto
in un secondo momento, per poi costantemente farvi ritorno. Rientra
dunque nell' essenza dell' essere il rivelarsi nella forma, percepibile
all' orecchio, della musica.
La musica del linguaggio e il mito sono
una cosa sola.
Nel fiducioso contatto con gli elementi
e con le forze della natura - si pensi all' inno di Hölderlin:
Wie wenn am Feiertage - e' divenuto manifesto, ed ha dischiuso la bocca
dell' uomo, costringendolo a cantare gli dei, sotto forma di musica
e di linguaggio.
Presso i Greci e' il mito stesso ad affermare in modo sufficientemente
chiaro l' origine miracolosa del linguaggio, al cui interno accadono
cose si' grandi: nella parola vivente si manifesta e dimora la divinita'
dell' essere. I Greci hanno attribuito il cantare ed il dire, come tali,
ad una divinita', la quale non soltanto dona l' arte del canto ma e'
essa stessa a cantare in senso proprio, ad essere il canto. E' la Musa,
che non ha l' eguale in nessun altro popolo. Gia' i versi iniziali dell'
Iliade e dell' Odissea non le chiedono di stare accanto al poeta, ma
di cantare. Le Muse sono figlie del dio supremo, Zeus, e di Mnemosyne,
la dea del ricordo che discende dalla stirpe dei Titani. Dimorano nell'
Olimpo, ed a dimostrazione di quanto siano vicine al padre degli dei
e degli uomini vengono dette, esse soltanto, oltre a Zeus, "olimpiche".
Che significa questa vicinanza?
Nell' Inno di Pindaro a Zeus, purtroppo
andato perduto, si narrava della loro generazione, della loro nascita.
Allorche' Zeus, dopo avere sconfitto i Titani, aveva completato la meravigliosa
opera di dar forma nuova al mondo, egli si sedette e guardo' gli dei,
che contemplavano la creazione senza parole, in estasi. Domando' infine
loro se mancasse ancora qualcosa per giungere alla perfezione. Si, risposero,
qualcosa ancora mancava: la nascita di creature divine che fossero in
grado di glorificare convenientemente, con parole e suoni, quell' opera
grandiosa. Zeus genero' allora le Muse, il cui canto celebra soprattutto
il mondo degli dei.
Nessun uomo viene dunque prescelto per simili annunci e lodi. E' necessaria
una voce divina. Ma neppure gli dei che reggono il mondo vi sono adatti;
anch' essi appartengono a quell' ordine dell' essere inaugurato da Zeus.
Deve trattarsi di una voce che si affacci come ultima nella creazione,
ed in virtu' della quale quest' ultima divenga perfetta. Il mondo si
compie nella nascita della forma, che ne rivela l ' essere e che con
esso coincide. E questa forma sono la parola, il canto, originariamente
identici, prodotti non da facolta' umana ma rilucenti dall' essere stesso
delle cose; una manifestazione divina: La Musa. Essa e' lo spirito e
la forza del mito del mondo, nella sua rivelazione come forma sonora.
Tratto da: W.F. Otto, " Il Mito",
Il nuovo melangolo, Genova, 2000
Titolo originario del saggio: "Der Mytos", Ernst Klett Verlag,
Stuttgart, 1962
^cima^